Fabio Giampietro, “Exodus, un viaggio fra pittura e realtà virtuale”

In vista del Giorno della Memoria curerò quest’anno una installazione immersiva di Fabio Giampietro al Museo Ebraico di Bologna che sarà inserita anche nel circuito ufficiale degli eventi di Arte Fiera e di Art City Bologna in collaborazione con Galleria de’ Bonis.

L’opera site-specific, composta appositamente per questo spazio e per questa ricorrenza, si svilupperà fra pittura, suono (composto da Alessandro Branca) e realtà virtuale.
Protagonista sarà un dipinto, collocato all’interno del Memoriale, che racconterà delle navi in partenza verso l’attuale Israele che si lasciano alle spalle un’Europa distrutta dalla guerra. Il dipinto parlerà dell’ennesimo viaggio del popolo ebraico in fuga dai suoi persecutori ma questa volta in direzione della Terra Promessa.

Lo spettatore potrà guardare l’opera a occhio nudo ma, indossando un visore per la realtà virtuale, gli sarà possibile anche entrare nel dipinto vivendolo dall’interno in modo esperienziale e immersivo. Un sistema audio permetterà di sentire voci e rumori di persone in fuga tutt’intorno allo spettatore calandolo ancora di più nella Storia perché possa viverla in prima persona.


Vi siete mai chiesti cosa ne sia stato degli ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento che ritornati, fra la vita e la morte, non hanno trovato più nulla? Niente più famiglie, niente più casa, nessun lavoro, nessun risparmio, tutto fatto a pezzi e requisito dai nazisti e dai fascisti.

Per far fronte a questa situazione drammatica, un’organizzazione paramilitare ebraica chiamata Haganah, organizzò una campagna di salvataggio con numerosi viaggi verso l’allora Palestina Britannica che sarebbe diventata poi nel 1948 lo Stato di Israele.

Questi viaggi costituivano per moltissime persone una seconda possibilità, l’opportunità di una nuova vita nella terra considerata promessa, nella quale ricominciare al sicuro, un Paese nuovo dove gli Ebrei avrebbero potuto finalmente vivere senza sentirsi minacciati da nessuno.

Il viaggio della nave Exodus fu illegale e particolarmente difficile. Il Regno Unito, che era allora potenza mandataria in Palestina, nel 1939 aveva limitato l’afflusso degli ebrei profughi a soli 75000 in cinque anni. Le migliaia di sopravvissuti a bordo della nave partirono dunque come clandestini.

Nel 1947 Haganah accolse più di 4000 profughi accompagnandoli, su 160 camion, al porto di Marsiglia. Da qui partirono con la nave Exodus nell’estate del ’47 dopo aver raccolto altri sopravvissuti a Porto Venere, in provincia di La Spezia.Nelle vicinanze di Haifa l’imbarcazione fu attaccata dalle forze militari britanniche. L’equipaggio e le persone a bordo si difesero strenuamente ma il loro viaggio fu violentemente ostacolato e interrotto. Ci furono diversi morti. Una volta arrestati, tutti i profughi furono rimpatriati con tre navi che li portarono di nuovo a Marsiglia dove fu offerto loro asilo politico. La maggior parte non accettò di sbarcare: la loro volontà era ancora fermamente quella di voler raggiungere la Palestina. Alla fine i profughi ebrei furono ritrasferiti in Germania in un’odissea senza fine.
In tutte queste operazioni molti furono i morti, i feriti e gli arrestati fra una popolazione stremata dalla prigionia, dal lavoro forzato, da ogni sorta di abuso e senza più niente da perdere se non la propria identità di ebrei.

Nel 1948 nacque lo Stato di Israele e migliaia di persone poterono finalmente trovare una casa e ricominciare una vita.

Questa storia poco conosciuta ha tantissimi punti di contatto con l’attualità che invitano alla riflessione.
Uno dei compiti dell’Arte Contemporanea è aiutarci a capire il mondo in cui stiamo vivendo con le sue dinamiche che, la Storia ci insegna, sono sempre le stesse anche se sembriamo non impararle mai.

Fabio Giampietro
Exodus. Un viaggio fra pittura e realtà virtuale

A cura di Margherita Fontanesi
In collaborazione con Galleria de’ Bonis

Museo Ebraico di Bologna
Via Valdonica 1/5, Bologna

Una mostra promossa nel circuito ufficiale di Art City Night e di Artefiera

24 gennaio – 8 marzo 2020

Per informazioni:
Galleria de’ Bonis, tel. 339-6904304 info@galleriadebonis.com www.galleriadebonis.com

MEB, tel. 051-2911280 info@museoebraicobo.it www.museoebraicobo.it

Mario Tozzi, geometria della purezza

Mario Tozzi, un artista che sta vivendo un grande momento di interesse nell’ambito del collezionismo d’arte e che attrae un pubblico trasversale per gusti ed età.

Mario Tozzi, La casa rosa, 1967, olio su tela, 82,5 x 54,5

La prima cosa che mi chiede chi si approccia per la prima volta alla sua pittura è sempre: “Quando è nato?”.
Il suo stile è difficilmente databile e il suo non appartenere a un movimento artistico, insieme a un temperamento schivo e solitario, ha preservato la sua pittura da mode e contaminazioni.

Nelle sue figure femminili si sposano plasticità e linearità, volume e geometrizzazione delle forme in un passaggio che, dagli anni 30 agli anni 60, vede la volumetria lasciare spazio all’analisi geometrica mentre il suo stile diventa sempre più unico, personale e riconoscibile.

Tozzi studia per tutta la vita la “sua” gamma cromatica, all’interno della quale si muove con armonia e coerenza.
I grigi si tingono di rosa, il rosa vira nell’arancio e poi nelle gradazioni delle terre.
I colori di Tozzi si contraddistinguono per la loro “polverosità” che rende ogni tela simile a un dipinto murale.

L’immagine di Mario Tozzi è promossa e tutelata dall’Archivio Tozzi che ha raccolto e raccoglie tutto il materiale documentario, critico ed espositivo concernente l’artista e si occupa della certificazione di autenticità delle sue opere.

L’Archivio Mario Tozzi

Quale dunque miglior modo di esplorare l’”universo Tozzi” che farlo attraverso una chiacchierata con Roberto Tiezzi, il presidente dell’Archivio Tozzi?

D: Qual è la cifra stilistica più unica nelle opere di Tozzi?

R: Sono molteplici, la prima che mi viene in mente è una grande tecnica, ricordiamo che ha studiato all’Accademia delle Belle Arti di Bologna con compagni come Morandi e Licini, unita ad una maniacale precisione di rappresentazione, dapprima di paesaggi dei luoghi dove viveva e delle persone vicine, per passare poi a figure mitologiche e al metafisico fino ad arrivare alle geometriche figure femminili dell’ultimo periodo.

D: Il periodo dei fondi bianchi di Suna è molto ricercato dal mercato ma a suo avviso è anche quello artisticamente più alto?

R: Il periodo dei fondi bianchi, che rappresenta una specie di “rinascita” o meglio di “seconda nascita” del Maestro, è stato subito apprezzato a livello commerciale, tale che la produzione, in particolare dal 1968 al 1972 è stata molto cospicua. Le figure femminili di Tozzi hanno una grande personalità riconoscibile e sono ben identificate (come ad esempio le donne del suo collega Campigli), anche se nel primo periodo parigino, dal 1923 al 1935, l’artista, a mio parere, dimostra la sua grandezza. Opere di grandi dimensioni, meditate e studiate nei particolari: infatti tali sono l’accuratezza e il tempo dedicato a realizzarle che la produzione consta di pochi dipinti ogni anno. Sono le opere che troviamo e che possono essere ammirate nei musei di tutto il mondo!

D: All’interno del groupe des sept come emergeva la figura di Tozzi? Qual era la sua personalità?

R: Si ritrovano a Parigi de Chirico con il fratello Savinio, De Pisis, Paresce, Campigli e Severini. Tozzi, che capisce la necessità di unire le forze e promuovere la grande arte italiana, si fa capo del gruppo. È lui che promuove e coordina, sia a Parigi che in Italia, organizzando tra l’altro la biennale di Venezia del 1930 dedicata agli “italiani parigini”. È uscito lo scorso un libro edito Utet, della storica dell’arte Rachele Ferrario, intitolato “Les Italiens” dove descrive il magico periodo degli italiani a Parigi.

Mario Tozzi nel suo studio a Parigi nel 1973.
fonte: Archivio Tozzi – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=23643559

D: Al di là del periodo parigino come si riflette la personalità dell’Artista nella sua pittura?

R: Tozzi era un attento osservatore, di grande cultura e amante dell’arte in tutte le sue manifestazioni.
Grande conoscitore di Piero della Francesca, a cui spesso si collega, nella sua pittura troviamo la pacatezza, la meditazione, la serenità e la precisione della sua personalità.

D: Come lavora l’Archivio?

R: L’Archivio tutela e rappresenta l’arte del Maestro, il lavoro si articola tra il controllo dell’autenticità delle opere – sono numerose le opere false in circolazione – , all’emissione di certificazione oltre al controllo e promozione delle mostre e delle pubblicazioni. Oltre al lavoro di diffusione della sua opera nel moderno mezzo di comunicazione di internet e dei social. Inoltre l’Archivio ha il “dovere” di confrontarsi, essere presente e vicino ai collezionisti e agli addetti ai lavori.


Mario Tozzi, Testina bruna, 1967,
olio su tela applicata su pannello, 35 x 27

Fabio Giampietro, “The leap”

Seguo il lavoro di Fabio Giampietro da anni e trovo che parlare di paesaggi urbani per la sua produzione sia estremamente limitante.

Fabio Giampietro, HPS-The Crane, 2018,
sottrazione di olio su tela, 140 x 120

Le opere della personale “The leap” alla Galleria de’ Bonis di Reggio Emilia
(15 dicembre 2018 – 19 gennaio 2019) fanno parte della serie “Hyperplanes of Simultaneity” e, più che descrittive, postatomiche o surreali come talora sono state definite, sono piuttosto estremamente simboliche e il paesaggio diventa solo un pretesto, una porta per un altrove che è dentro di noi.

Fabio Giampietro, cervelli in fuga, 2015, olio su tela, 40 x 30

Quando ci troviamo sulla sommità di uno dei grattacieli di Fabio Giampietro siamo in realtà sull’orlo della nostra interiorità e ci affacciamo sulla nostra mente.

L’entrare in profondità dentro di noi esercita sulla maggior parte delle persone un’attrazione e un rifiuto che mandano in cortocircuito il nostro cervello paralizzandoci. È la stessa cosa che capita quando ci troviamo ad un’altezza elevata: la percezione della distanza da terra viene aumentata dal nostro cervello per indurci a metterci al sicuro senza rischiare di cadere (High place phenomenon), ma in molti al contempo scatta un altro istinto che nel mondo scientifico si chiama “Appel du vide”, richiamo del vuoto, il forte istinto di buttarsi.

Questi due istinti che generano un misto di ansia, aumento adrenalinico e piacere, scattano anche di fronte alle tele di Fabio Giampietro e questo è uno dei motivi che le rende così magnetiche.
La possibilità di esperirle anche attraverso la realtà virtuale rende l’esperienza ancora più forte e totalizzante.

Per entrare dentro di sé, accettare anche le parti più difficili del nostro essere è necessario spiccare un salto, lasciarci alle spalle la sicurezza della nostra realtà materiale e lasciarci andare alla scoperta di qualcosa di nuovo e misterioso vivendo la vertigine e non opponendoci ad essa.

Fabio Giampietro, HPS – The Crane, 2018, sottrazione di olio su tela, 110 x 80

Gli edifici di questi dipinti, spersonalizzati e per lo più senza traccia umana, rappresentano proprio il mondo parallelo che c’è dietro le nostre sicurezze, le nostre convinzioni, la nostra quotidianità rassicurante.

Quasi tutti restano incantati davanti alle opere di questa serie ma si tratta di uno stupore composto.

È nel momento in cui indossano l’oculus e si immergono nella realtà virtuale che tratti importanti della loro personalità escono mettendone a nudo l’approccio allo sconosciuto.

C’è chi si incanta con entusiasmo, chi si paralizza terrorizzato, ci è ritroso ma poi si lascia convincere, chi toglie subito l’oculus per non farsi vedere insicuro, chi rifiuta la possibilità di perdere il controllo.

Fabio Giampietro, HPS- Sails, 2018, sottrazione di olio su tela, 110 x 80

Trovo le opere di Fabio Giampietro molto…”terapeutiche”: sono un’opportunità per lasciarsi andare, esplorare i propri limiti, sfidare con il gioco le proprie paure e fare un “salto nel vuoto” dentro di noi.

Fabio Giampietro
“The leap”
15 dicembre 2018 – 19 gennaio 2019
Galleria de’ Bonis
Reggio Emilia, Viale dei Mille, 44/B
Tel. 0522 580605, cell. 338 3731881
info@galleriadebonis.com
Instagram: @galleriadebonis
www.facebook.com/galleriadebonis

In contemporanea: una rete di gallerie d’arte che adotta il “Reggio Emilia approach” su “Collezione da Tiffany”

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Collezione da Tiffany, sito di riferimento per il collezionismo e il mercato dell’arte in Italia, ha pubblicato una mia bella intervista a cura di Nicola Maggi (che potete leggere qui) su In contemporanea, la rete di gallerie d’arte di Reggio Emilia e che sto curando.

Un progetto in crescita, nato nel 2014, che sta diventando ormai un piccolo riferimento per la vita culturale del territorio.

Credo molto nella cooperazione e, con In contemporanea, ho voluto portarla anche nel mio lavoro nel mercato dell’arte.

Volete saperne di più?

Potete leggere l’In contemporanea-pensiero qui

Oppure potete visitare direttamente il sito del progetto: www.incontemporanea.eu

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Nazismo, arte e propaganda

Otto Von Kursell, ritratto di Hitler

Otto Von Kursell, ritratto di Hitler

La propaganda è un sistema di informazione parziale volto a plasmare le opinioni ed i comportamenti delle masse[1].

Nell’analisi del rapporto fra arti figurative e Shoah è importante comprendere prima di tutto come il Reich si sia servito dell’Arte come principale strumento di propaganda.

Nel 1933 Hitler istituisce il Ministero della Propaganda alla cui guida pone Joseph Goebbels. Il Ministero ha l’obbiettivo di uniformare la cultura tedesca ed allinearla al pensiero Nazista o meglio, metterla al suo servizio.

I principi guida della perfetta macchina del consenso tedesca sono semplici e chiari:

– La propaganda è emotiva e non razionale
– deve essere compresa dai meno educati membri della società
– le immagini parlano più chiaramente delle parole
– una bugia grossa è più sostenibile di molte piccole
– accusa i tuoi oppositori di ciò che tu stesso stai facendo

Nel Mein Kampf Hitler dichiara:

La propaganda è un’arma terribile in mani esperte…. Tutta la propaganda deve essere popolare ed il suo livello intellettuale deve essere regolato sull’intelligenza più limitata tra coloro verso cui è diretta“.

Le immagini si prestano benissimo allo scopo di “educare” perché possono essere immediatamente comprensibili e, a differenza della parola scritta, sono interpretate dall’emisfero destro del cervello, più legato a un tipo di comprensione empatica che non logica e fanno leva sulle emozioni più che sulla ragione.

Hitler tiene sei discorsi sull’arte stampati in sei pamphlet separati contenenti la sua visione della politica.

La politica stessa viene vista come una forma d’arte come dichiara Goebbels:

Anche la politica è un’arte… e noi che diamo forma al moderno sistema Tedesco ci sentiamo artisti a cui è stata data la responsabilità di formare, dal grezzo materiale della massa, la solida struttura di un popolo…..questo è il dovere (dell’artista), quello di dare forma, di togliere la malattia per creare la libertà della salute.”

L’arte dunque, plasmata attraverso la propaganda, era diffusa fra i tedeschi in modo capillare con lo scopo di creare quella mentalità che rese possibile l’Olocausto; mentalità alla cui base era stato costruito un forte senso di orgoglio e solidarietà nazionale e un profondo antisemitismo.

La diffusione di questa arte addomesticata avveniva in diversi modi:

– con mostre come Entartete Kunst (Arte degenerata) che mettevano in ridicolo tutte le avanguardie artistiche che fiorivano in Europa in quel periodo e che avevano presentito i pericoli del regime nazista e l’involuzione delle democrazie europee. (Ne ho parlato qui).

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– con mostre che esaltano la nuova arte di regime come Grosse Deutsche Kunstaustellung (La mostra della grande arte tedesca, ne ho parlato qui).

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– con pubblicazioni rivolte ai più piccoli come “Il fungo velenoso” dell’editore Julius Streicher, praticamente specializzato in pubblicazioni antisemite. Questo libro a vignette si apre con l’immagine di una madre tedesca che insegna al figlio a riconoscere i “funghi buoni” da quelli “cattivi”, così come deve saper distinguere ariani “buoni” ed ebrei “cattivi”. Questi albi erano diffusi anche nelle scuole e insegnavano a bambini e ragazzi a riconoscere gli ebrei e a difendersi da essi.

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L’arte di regime nasce su indicazioni chiare e semplici dettate dalla Camera di cultura del Reich, indicazioni che sono state seguite alla lettera dagli artisti tanto da trovarci noi oggi di fronte a uno stile pressocché spersonalizzato. L’uniformità stilistica garantiva la sua immediata comprensione e la non fraintendibilità.

L’arte che diffonde il regime nazista è improntata sulla figurazione con toni retorici e classicheggianti.

Protagoniste sono quasi sempre figure umane che personificano anche i concetti astratti: si tratta di corpi giovani, fieri e forti ispirati agli atleti.

Gli uomini e le donne rappresentati nelle opere d’arte nazista sono soldati coraggiosi che credono nella grandezza della Germania e se ne sentono parte, sono famiglie ariane basate sulla purezza della razza che conducono una vita semplice e sana in campagna  e alimentano la grande retorica del “Volk”, inteso non solo come popolo unito ma anche come ritorno alle origini, anche agricole, della civiltà tedesca.

Adolf Wissel, La famiglia contadina Kahlenberger, 1939

Adolf Wissel, La famiglia contadina Kahlenberger, 1939

Il Nazismo si serve molto di architetture grandiose e di sculture monumentali: si tratta ancora una volta di opere che personificano gli ideali del partito nazional socialista. Il gigantismo di architetture e sculture crea nel popolo un forte senso di appartenenza a una grande nazione vincente e queste sculture monumentali in particolare sottendono l’idea del popolo compatto e allineato come un sol uomo. Gli scultori ufficiali sono Josef Thorak e Arno Breker.

josef Thorak Comradeship

Josef Thorak, Comradeship

Arno Breker Esercito e Partito

Arno Breker, Esercito e Partito

Esiste solo una testimonianza fotografica  di un’opera particolarmente significativa: il trittico Das Opfer, I martiri realizzato da Wilhelm Sauter nel 1936 che è andato distrutto nel bombardamento inglese nell’autunno del 1942.

Wilhelm Sauter, Das opfer, 1936

Wilhelm Sauter, Das opfer, 1936

La scelta stessa della struttura a trittico è significativa perchè rimanda all’arte sacra come del resto il suo titolo.
Nell’opera vengono accostati soldati del fronte della prima guerra mondiale, al servizio dello Stato Tedesco, a soldati politici, SS e SA, i militari del partito Nazional Socialista. Questo accostamento contribuisce a sovrapporre nell’immaginario dei tedeschi il partito con lo Stato. Si tratta di un’operazione sottile quanto importante.

Esiste anche un manifesto, molto diffuso nella Germania Hitleriana, che rappresenta Hitler come un Messia, riprendendo l’immagine cristologica di Gesù trionfante sulla morte. Il vessillo crociato di Cristo viene sostituito dalla bandiera con la svastica e la colomba dello Spirito Santo dall’aquila imperiale. I militari sullo sfondo risultano come una massa compatta come si diceva prima e si arriva a identificare il popolo tedesco con i soldati del Reich: ogni tedesco è invitato a combattere per la patria.

Hitler Es lebe Deutschland

Questa ricerca di legittimazione del nazismo nel sacro non è limitata all’ambito artistico: il motto stesso sulle fibbie delle cinture delle SS era Gott mit uns, Dio è con noi.

Una teoria forse un po’ estrema ma da prendere in considerazione in un’analisi ampia è quella presentata nel documentario del regista svedese Peter Cohen, “Architecture of Doom” (titolo originale “Undergångens arkitektur”, ne ho parlato qui) secondo la quale nel suo delirio di onnipotenza Hitler, identificando gli Ebrei come i prescelti di Dio, volesse eliminarli per sostituire il proprio popolo ad essi.

Anche nell’analisi del rapporto fra Arte e Shoah, è importante risalire alle origini: prima di capire come l’arte non allineata con l’ideale nazista sia stata bollata come degenerata e eliminata dalla circolazione, è necessario capire questi mezzi con i quali quest’idea è stata instillata nelle menti dei tedeschi.

Da sempre l’arte si presta a strumentalizzazioni da parte del potere a causa del suo grande potenziale comunicativo, della sua forte presa emotiva e del prestigio che conferisce alle idee che le si accompagnano.

Capire questo potenziale permette di accedere a un livello più profondo di lettura delle opere e di comprensione delle idee che si accompagnano loro.

E magari aiuta a riconoscerle.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] http://www.yadvashem.org/yv/en/education/languages/italian/lesson_plans/germanys_sculptor.asp

“Il lavoro rende liberi” e altre menzogne. Arte e Olocausto

Agostino Barbieri, il lavoro è libertà

Agostino Barbieri, il lavoro è libertà

L’arte ha un ruolo chiave negli anni della Seconda Guerra Mondiale: in mano a nazisti e fascisti diventa uno strumento importante della propaganda di regime e in mano ai perseguitati diventa un forte mezzo di denuncia.

L’arte è scelta da entrambe le parti per diversi motivi:
le inclinazioni personali di Hitler e Mussolini, che si sentivano pittori e architetti mancati, hanno fatto intuire loro la potenzialità delle immagini e la loro straordinaria presa emotiva sulle persone.

Dagli anni venti in tutt’Europa si assiste a una grande fioritura di avanguardie artistiche: in ogni Paese si sviluppano nuove modalità espressive e una vivace  ricerca formale; per i regimi diviene naturale affidare all’arte, un’arte “addomesticata”, il proprio messaggio nell’intento di nobilitarlo.

Alcuni aspetti della concezione hitleriana di propaganda sono questi:

– La propaganda è emotiva e non razionale
– deve essere compresa dai membri meno educati della società
– le immagini parlano più chiaramente delle parole
– una bugia grossa è più sostenibile di molte piccole
– accusa i tuoi oppositori di ciò che tu stesso stai facendo

La creazione di un’arte di regime sfrutta dunque lo slancio espressivo dell’arte ma incanalandola all’interno del proprio sistema di propaganda.

Questa operazione ha esiti molto diversi in Germania e in Italia:
in Germania Hitler trova in Josef Goebbels la persona perfetta per coordinare la vita culturale del Reich. Il risultato è il silenziamento di tutte le avanguardie artistiche e la creazione di un’arte nazista in cui tutti gli artisti si esprimono con gli stessi stilemi imposti dalla Camera di Cultura del Reich.

Wilhelm Sauter, Ostkämpfer, 1944, acquistato da Hitler

Wilhelm Sauter, Ostkämpfer 1944

Scrive Goebbels nel 1933:

Anche la politica è un’arte… e noi che diamo forma al moderno sistema Tedesco ci sentiamo artisti a cui è stata data la responsabilità di formare, dal grezzo materiale della massa, la solida struttura di un popolo…..questo è il dovere (dell’artista), quello di dare forma, di togliere la malattia per creare la libertà della salute.

In Italia invece Mussolini affida questo compito a Margherita Sarfatti che, pur affiancata da artisti e accademici come Ardengo Soffici e Ugo Ojetti, non riesce a imporre un’unica linea espressiva e l’arte fascista si ritrova ad essere un amalgama di tendenze inconciliabili: classicismo, neoprimitivismo, futurismo.

Il regime fascista aveva lasciato che gli artisti declinassero i contenuti politici ognuno secondo il proprio linguaggio. Se questo costituì un insuccesso per la propaganda fascista fu una gran fortuna per l’arte italiana, che salvò dall’omologazione la complessità artistica di quel periodo.

 

Renato-Bertelli-Profilo-continuo-1933

Renato Bertelli, Profilo continuo, 1933

Otto Von Kursell, ritratto di Hitler

Otto Von Kursell, Ritratto di Hitler

D’altro canto l’arte è utilizzata come strumento espressivo anche dai perseguitati.

Ci sono artisti, ebrei e non, che pre-sentono quello che sta succedendo in Europa e raccontano per immagini l’inizio delle persecuzioni antiebraiche come fa per esempio Mark Chagall.

Marc Chagall. Crocefissione bianca, 1938

Marc Chagall, Crocefissione bianca, 1938

Molti artisti sono deportati in campi di concentramento e di sterminio per le loro origini ebraiche o come detenuti politici per le loro idee. In alcuni casi gli artisti trovano nel disegno uno strumento di salvezza:
è il caso di Aldo Carpi (nipote di un ebreo convertito al cristianesimo) che viene arrestato per delazione di un collega e deportato a Mauthausen e poi a Gusen per aver difeso una sua allieva ebrea all’accademia di Brera dove insegna pittura. A Gusen disegna per un capitano medico delle SS che lo aveva preso a benvolere e che lo aiuta a salvarsi. Durante la prigionia però realizza anche molti disegni segreti per descrivere la vita nel campo che oggi sono preziosi documenti di testimonianza.

Aldo Carpi, Carro di morti davanti al deposito del crematorio ormai pieno

Aldo Carpi, Carro di morti davanti al deposito del crematorio ormai pieno

Durissima è l’esperienza di David Olère, artista ebreo deportato ad Auschwitz dove è costretto nel terribile corpo del Sonderkommando, i detenuti che si dovevano occupare di eliminare i corpi dei compagni uccisi. Olère si salva anche disegnando per le SS, decorando le loro lettere e facendo ritratti. L’artista ci ha lasciato un corpus ampio e durissimo di disegni e dipinti, realizzati durante la sua intera vita dalla liberazione in poi che, con una grande crudezza analitica raccontano la vita ad Auschwitz e gli incubi dei prigionieri.

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David Olère, Il cibo dei morti per i vivi

Felix Nussbaum, anch’egli ebreo, invece non si salva, è ucciso ad Aushwitz nel 1944. Di lui ci restano dipinti stupendi e carichi di una angoscia quasi tangibile che raccontano la sua vita da braccato con la presenza costante della paura dell’arresto. Nussbaum, che proveniva da una famiglia ebrea tedesca benestante e patriottica non si capacita di come il suo stesso stato gli dia la caccia e lo voglia vedere morto e vive con grande conflittualità il suo essere ebreo come identità che da una parte lo pervade e lo identifica profondamente, ma dall’altra lo espone continuamente al pericolo.

Felix Nussbaum, autoritratto con carta di identità ebraica, 1943

Felix Nussbaum, Ritratto con carta di identità ebraica, 1943

Ci sono poi artisti come Bruno Canova che vengono arrestati in quanto antifascisti e vivono la durezza del campo di concentramento ( Canova fu deportato a Brux, nel Sudetenland) ma, una volta liberato, dipinge per anni il suo vissuto trattando molto però anche l’orrore dell’Olocausto dei suoi compagni ebrei senza fermarsi alla sua sola esperienza personale.

8 Bruno Canova 'Una nazione padrona del mondo', 1973

Bruno Canova, Una nazione padrona del mondo, 1973

Negli anni dell’Olocausto e in quelli che lo precedono dunque l’arte è protagonista in diversi modi: da una parte come strumento di regime, commissionata, non libera nei contenuti e nemmeno nelle forme. L’arte di regime veicola un messaggio di forza e di salute in primis, usa uno stile figurativo e classicheggiante (per lo meno in Germania). Ogni forma d’arte che esulava da questi schemi era fuorilegge e veniva bollata come “arte degenerata”. Spesso si ricorreva a sculture bronzee grandiose che arrivavano anche a 20 metri di altezza e, sotto forma di uomini atletici, incarnavano gli ideali del partito nazista.

josef Thorak Comradeship

Josef Thorak, Comradeship

A fronteggiarsi con questa c’è l’arte dei perseguitati, soprattutto artisti ebrei e antifascisti, un’arte libera che racconta la realtà dietro la menzogna creata dall’arte di regime, parla di condizioni di vista disumane, racconta la realtà dei ghetti e quella dei campi di concentramento e di sterminio. Si tratta di un’arte per lo più espressionista, non “facile”, non “gradevole” ma dura e spinosa come la realtà, in molti casi è un’arte clandestina, sono disegni fatti con una matita trovata fortunosamente, con un pezzo di carbone, su fogli di recupero piegati e nascosti gelosamente. I perseguitati dipingono per testimoniare, per non impazzire, per cercare un legame con la realtà e per avere qualcosa da mostrare temendo di non essere creduti una volta liberi.

Il confronto di queste due parti ricorda la storia del piccolo pastore ebreo Davide, che diventerà re, contro il gigante dei Filistei Golia, in lotta contro il popolo di Israele.

 

Renato Guttuso e la società davanti al caminetto

Le opere che più mi affascinano sono quelle apparentemente semplici che catturano magari per la loro pulizia formale, ma delle quali si scoprono dettagli rivelatori che le rendono incredibilmente, enigmaticamente ricche ed eloquenti.

Si tratta di opere parlanti che però raccontano qualcosa solo a chi vuole stare ad ascoltare o meglio, a vedere. Diversamente mostrano soltanto una superficie gradevolmente ordinaria.

Guttuso, Caminetto, 1984, olio su tela, 150 x 125,5

Dunque Guttuso, con questo dipinto, ci trasporta davanti a un caminetto, un caldo scoppiettante fuoco in un interno borghese. Sono alcuni dettagli che ci danno questa indicazione di ceto: il marmo, usato al posto della pietra persino per la soglia, l’ottone che protegge il pavimento in parquet dalle scintille e sul quale si riflettono le fiamme, con un piccolo virtuosismo pittorico. Persino l’aver scelto non una sedia qualsiasi come elemento in primo piano ma una Thonet non è un dettaglio casuale.

In basso a sinistra, appoggiata in un angolo, per terra c’è una caffettiera napoletana evidentemente fuori posto. In un vero interno la caffettiera sarebbe stata di servizio, in porcellana decorata e si sarebbe trovata su un tavolino. Questa anomalia indica che l’oggetto, di evidente origine popolare,  deve essere letto in chiave simbolica.

Il libretto rosso sulla mensola del camino è una chiara allusione al libretto rosso di Mao e all’impegno politico di Guttuso che ha pervaso tutta la sua vita e gran parte della sua carriera artistica.

L’uovo nel portauovo davanti al libretto è forse l’elemento più enigmatico. Apparentemente un simbolo di perfezione e dell’origine della vita che ha radici antichissime nell’icnografia artistica (l’esempio più noto potrebbe essere la “Pala di Brera” di Piero Della Francesca con l’uovo che pende dall’alto sul capo della Vergine e del Bambino), ma non è raffigurato nella sua interezza. L’aver collocato l’uovo nel portauovo riporta il simbolo in una dimensione quotidiana a voler ricordare la perfezione si, ma anche il nutrimento. Una immagine insomma di un Guttuso intellettuale ma con i piedi per terra, soprattutto se accostata alla caffettiera napoletana.

Nella sua lettura completa l’opera appare come uno spaccato metaforico della società, con le sue stratificazioni, quelle più palesi e quelle più nascoste: la componente borghese, la facciata, la componente popolare, ai margini ma che si impone all’attenzione, la parte politicizzata rappresentata da quel piccolo libretto rosso squillante come una spia di allerta.

Ecco come, un’immagine apparentemente semplice può nascondere, per chi la sa guardare, una mondo intero.

The Power of Art. Le donne, l’Arte, la città

copertina 2 fbIl fatto di lavorare nel mondo dell’Arte come donna ha un peso di genere diverso? Esistono una visione e una gestione femminile dell’Arte?

Mi hanno  invitato, nella doppia veste di gallerista e vice presidente della Fondazione “Il Correggio” a rispondere a queste domande un’attrice e un’artista: Laura Pazzaglia e Maria A. Listur che hanno organizzato per sabato 8 aprile 2017 l’incontro The Power of Art.

Insieme a me ci saranno Francesca Baboni, critica d’arte e curatrice, ideatrice del Premio Combat e, insieme a me, membro del CdA della Fondazione “Il Correggio”, Elisabetta Farioli, direttrice dei Musei civici di Reggio Emilia, Marzia Faietti, direttrice del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, Marinella Paderni, critica d’arte contemporanea e prima donna a dirigere un’Università del Design (Isia di Faenza), Daniela Ciotola, storica dell’arte e curatrice del fortunatissimo programma d’arte Passpartout di Philippe Daverio, Melania Rossi, giovane critica e curatrice d’arte che ha firmato la curatela della mostra evento di Jan Fabre a Firenze lo scorso anno.

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I nostri lavori sono molto diversi ma concorrono a determinare l’arte che vedete oggi.

Chi c’è dietro le opere d’arte che incontriamo nei nostri viaggi e nella vita quotidiana?

Chi sceglie cosa noi cittadini e visitatori vediamo nelle mostre, nei musei, nelle gallerie, perfino in televisione?

Molte delle persone che si occupano di arte oggi, in Italia, direttori di museo, curatori, galleristi, sono donne: quello che prima era un’eccezione, oggi sembra una scelta condivisa.

Dalla direzione dei Musei Vaticani, per la prima volta dalla loro fondazione affidata a una donna, alla direzione artistica della Biennale di Venezia 2017, al management delle maggiori fiere d’arte, i nomi sono molto spesso al femminile… Cosa succede nel mondo dell’arte? Qualcosa è cambiato? Come le donne stanno interpretando e rendendo concreta la funzione dell’arte nelle nostre città?

The Power of Art, le donne, l’arte le città

sabato 8 aprile , ore 17, Sala degli specchi Teatro Municipale Valli.

Ingresso libero fino ad esaurimento posti disponibili.

Dalle 16.30 saranno aperte le terrazze del Teatro Municipale Valli con servizio di caffetteria e bookshop.

Per informazioni: Ufficio Pari Opportunità Comune di Reggio Emilia tel. 0522 58.50.63, www.municipio.re.it

Art Galleries in the social media era

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Challenging

Questo è il termine che sintetizza la lecture  che ho seguito martedì 28 aprile alla Bocconi riguardo al ruolo delle gallerie d’Arte nell’epoca dei social media.

Ha moderato l’incontro Marc Spiegler, global director di Art Basel e hanno partecipato come relatori i galleristi:

Maria Bernheim – Maria Bernheim, Zurich
Emanuela Campoli – Campoli Presti, Paris, London
Francesca Kaufmann –  Kaufmann Repetto, Milano, New York
Oliver Newton – 47 Canal, New York

Nonostante fossero più i sostenitori della presenza delle gallerie sui social network che i detrattori la presenza anche di pareri non favorevoli ha alzato il livello del dibattito rendendolo più sfaccettato e permettendo di fare luce sui pro e i contro di un nuovo capitolo della storia del mercato dell’Arte e del collezionismo.

Il mondo oggi si sta spostando in gran parte on line ed è utopico – e a parer mio sbagliato – che le gallerie d’Arte ignorino l’esistenza dei social media e ne stiano fuori con un atteggiamento snobistico verso il mezzo o iperprotettivo verso i propri artisti.

Personalmente, come gallerista, constato che molti dei miei clienti (e molti dei potenziali tali) sono sui social network e spesso ci contattano privatamente dopo aver visto nostre opere anche sulla nostra pagina Facebook. Questo è un fenomeno in lento ma costante aumento, mentre i contatti dal sito o dalla newsletter sono ormai all’ordine del giorno. Ma questi non sono social network.

Secondo alcuni i social media sono i “bignami” dell’arte e danno informazioni superficiali che banalizzano la cultura artistica e disincentivano la buona abitudine di leggere articoli di spessore.

Se sul fatto che la critica d’Arte sia penalizzata dalla fast-culture dei social sono d’accordo, non credo invece che la comunicazione di una galleria attraverso di essi possa portare via i clienti dallo spazio espositivo.

Chi compra Arte non rinuncerà mai a vedere le opere dal vivo e ben sa che le foto, pur essendo preziosissimi strumenti di lavoro, non rendono mai giustizia ai pezzi.

Soprattutto per gallerie giovani o delocalizzate rispetto ai grandi centri i social network possono diventare importanti.
Ma non basta esserci è importante anche il modo in cui si usano: un uso scorretto, trascurato, inadeguato al linguaggio social può avere l’effetto negativo di un boomerang penalizzando la galleria.

E qui subentra il challenge, la sfida che si pone alle gallerie d’Arte: trovare il giusto modo di comunicarsi e soprattutto invitare gli utenti del web ad andare in galleria, alle fiere agli eventi.

In una parola creare attesa, non esaurire in un post l’interesse del pubblico ma farlo nascere con quel post.

Non solo pubblicare un’opera e una didascalia o  dare una notizia ma produrre contenuti con il linguaggio adatto. Contenuti che iniziano a essere fruiti on line ma devono essere completati dal vivo.

I post di una galleria secondo me devono essere come uno strip-tease: devono stuzzicare, non soddisfare completamente l’interesse del pubblico, devono far nascere il desiderio di un approfondimento. E di conseguenza la galleria deve essere pronta anche alla seconda fase, quella dell’approfondimento nel proprio spazio espositivo.

Mettere on line una galleria è come mettere una barca in mare, ma poi bisogna soffiare nelle sue vele nella giusta direzione per farla andare lontano.

Qual è la giusta direzione? Qual è il giusto modo di parlare a un cliente sui social? Non credo ci sia una risposta univoca: ogni galleria ha uno stile diverso e followers diversi, anche in fase differenti del loro cammino dell’arte, chi neofita chi già esperto o collezionista. Per capire cosa è giusto fare bisogna osservare molto: osservare come comunicano le istituzioni culturali, un certo tipo di pubblicità, le riviste specializzate, ma anche assecondare la propria personalità e il proprio stile di gallerista.

La stragrande maggioranza degli artisti inoltre usa i social network e anche questo fattore dev’essere tenuto presente dalle loro gallerie di riferimento che non credo possano permettersi di non essere a loro volta presenti. Sta poi nella correttezza dell’artista coordinarsi con la propria galleria per non “bruciare” pezzi e nuove serie pubblicandoli prima della galleria che magari ha in programma una mostra o un evento, come faceva notare Emanuela Campoli, nel rispetto della libertà dell’artista ma anche del lavoro di squadra che si fa con il proprio gallerista.

 

Licalbe Steiner: grafica e impegno civile

“Per Albe il piacere dell’invenzione formale e il senso globale della trasformazione della società non erano mai separati”.

Italo Calvino

Mi sono avvicinata a Licalbe Steiner perché sono stati insegnanti di Bruno Canova al Convitto Rinascita di Milano e, attraverso di loro, volevo capire qualcosa in più del percorso di questo artista che amo molto al quale ho dedicato una mostra monografica per il Giorno della Memoria del 2017.

Ho trovato molto di più: un mondo intero.

Lica e Albe Steiner erano un duo affiatatissimo. Hanno partecipato attivamente, come partigiani, alla Resistenza Italiana e, come molti combattenti che ho conosciuto, sono usciti dalla guerra con un’energia speciale, con la forza di chi ha lottato per i propri ideali e per un Paese nuovo, con la voglia di vivere il dopoguerra e l’Italia liberata, al massimo.

Non credo che le due cose siano scindibili. La guerra e l’impegno civile e politico sono stati una parte integrante della loro formazione umana che si è riflettuta nel loro lavoro, conferendo ad esso grinta e freschezza.

È affascinante conoscere una vita così piena e vulcanica, così ricca di progetti di successo.

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La mostra di Reggio Emilia coniuga Arte e Storia, accompagnando in modo vivace il visitatore attraverso anni molto intensi del nostro Paese.

Nel suggestivo spazio della Sinagoga di via dell’Aquila si ha modo di scoprire, per esempio che gli Steiner sono stati ideatori del design di prodotti che tutti abbiamo usato: le penne Aurora, il collirio Stilla (vedere quel flacone esposto come un oggetto “vintage” mi ha fatto riflettere molto sulla mia età!) e, sopra tutti, il marchio Coop. E si scopre così che il primo supermercato Coop in assoluto nacque proprio a Reggio Emilia, culla del cooperativismo, ed esiste ancora, nel centrale Corso Garibaldi.

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Lica e Albe parteciparono anche allo stupendo progetto del Museo del Deportato di Carpi realizzato dallo studio BBPR (Belgioioso, Banfi, Peressutti e Rogers), in collaborazione con Giuseppe Lanzani e Renato Guttuso.

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Ma si scopre anche come gli Steiner siano stati non solo insegnanti ma fra i fondatori dei Convitti Rinascita, un’entusiasmante realtà che ho conosciuto studiando Bruno Canova che si formò proprio come artista in uno di essi sotto la guida di Albe. Una forma scolastica auto-organizzata, e di impostazione democratica, basata sui valori della Resistenza, che nacque come idea nel 1944 fra i prigionieri del camp spécial di Schwarz-See. I Convitti si proponevano di dare una formazione a tutti coloro che avevano perso gli anni di scuola a causa della guerra. Era un progetto entusiasmante che mirava alla costruzione di un “nuovo uomo italiano” formato e consapevole intellettualmente e civilmente ma anche con un patrimonio culturale spendibile sul lavoro nel contesto di un’Italia tutta da ricostruire.

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Preziosi e importanti per capire il contesto di vita degli Steiner sono i loro disegni privati: delicati regali di Albe a Lica, appunti di viaggio o di vacanze ma altrettanto pregnanti sono pensieri e scritti di intellettuali e compagni di vita e di lotta che hanno ispirato le loro scelte e il loro lavoro.

In mostra sono esposti anche manifesti a contenuto politico e a sostegno di cause internazionali.

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Il senso di gran parte della mostra si trova, a mio avviso, in un pensiero di Albe del 1971:

“Nella critica alla propaganda vi sono due criteri: quello politico e quello estetico o artistico.

Qual è il rapporto fra questi due criteri? […] Le opere di propaganda che  mancano di qualità culturali, non hanno forza per quanto siano avanzate dal punto di vita politico […]”.

La mostra è stata presentata da Fondazione Palazzo Magnani insieme a Coop Alleanza 3.0 e curata da Anna Steiner –la figlia- su progetto dallo studio Origoni-Steiner.

Nel 1938 Albe Steiner sposa Lica e insieme si distinguono per l’impegno professionale e civile che ha contrassegnato la loro vita, iniziato durante gli anni bui del fascismo, cementato nella lotta di Resistenza e proseguito poi con la didattica e la comunicazione sociale.

Gli Steiner nel 1939 aprono insieme uno studio di grafica e lavorano alla stampa clandestina antifascista. Appena terminata la guerra sono tra i fondatori dei Convitti della Rinascita, curano due mostre a Palazzo Reale sulla Liberazione e sulla Ricostruzione e sono redattori grafici de “Il Politecnico” diretto da Elio Vittorini. Partono, poi, alla volta del Messico per riunire la famiglia di Lica, e si trovano a lavorare con i muralisti tra cui Siqueiros, Rivera e altri e Hannes Meyer, tra gli esuli della scuola Bauhaus. Rientrano in Italia per partecipare alle prime elezioni libere del 1948, dove riprendono il loro lavoro professionale.

Nelle sale della Sinagoga viene presentata la produzione del loro Studio L.A.S. dai primi lavori del 1939 fino alla Liberazione e al viaggio in Messico (1946-1948), in una narrazione scandita dalle diverse sezioni – ricerca grafica e foto-grafica, editoria, pubblicità e allestimenti, marchi, presentazione di prodotto, manifesti e grafica di impegno civile, formazione professionale – per arrivare infine a toccare anche l’attività di Lica, dal 1974, anno in cui muore Albe, alla sua scomparsa, nel 2008.

LICALBE STEINER. Alle origini della grafica italiana

11 Febbraio 2017 – 16 Aprile 2017
Reggio Emilia, Sinagoga, via dell’Aquila

Orari:
da venerdì a domenica – 10/13 e 15/19
da lunedì a giovedì solo per le scuole (su prenotazione)

Contatti:
Palazzo Magnani – Biglietteria Tel. 0522 454437 – 444446 – info@palazzomagnani.it