THE ARCHITECTURE OF DOOM. La filosofia nazista della bellezza attraverso la violenza

Noi dobbiamo creare l’Uomo Nuovo così che la nostra razza non soccomba alla degenerazione dei tempi moderni

Adolf Hitler, 1935

The architecture of doom

L’arte ha avuto una funzione importante  per la comunicazione del regime nazista ma non si immagina fino in fondo quanto.

Può aiutare ad avere una diversa visione sul tema “Architecture of Doom” (titolo originale “Undergångens arkitektur”) un film-documentario scritto, prodotto e diretto dallo svedese Peter Cohen nel 1989 e premiato l’anno successivo alla Berlinale, che purtroppo non è stato ancora tradotto in italiano (esiste soltanto in Inglese, tedesco, svedese e portoghese) né diffuso nel nostro Paese.

Il film esplora l’ossessione di Hitler per l’arte, dalle sue prime prove frustrate come artista, alla sua profonda conoscenza di artisti e movimenti fino alla strumentalizzazione che ne ha fatto a fine di propaganda politica nell’intero corso del suo regime.

Un acquerello di Hitler

Un acquerello di Hitler

un acquerello di  Hitler

un acquerello di Hitler

Hitler ha sempre inseguito un ideale di bellezza classico che ha cercato di replicare ovunque intorno a se: nelle arti visive come nell’urbanistica, come nelle coreografie di discorsi e celebrazioni politico-militari che lui stesso progettava. La sua visione era quella del popolo tedesco come un corpo solo e a questa visione partecipava anche la sua passione per l’architettura che lo accompagnò tutta la vita. I suoi progetti erano architetture solenni e imperiali e anche queste dovevano essere un punto di riferimento forte per il popolo tedesco: edifici che creassero un senso di appartenenza e compattassero il popolo. Quello di Hitler era un sogno corale.

adunate naziste

Il 18 luglio 1937 inaugurava a Monaco la mostra “Entartete kunst” (arte degenerata) 650 opere di 112 artisti  non in linea con le teorie estetiche naziste, opere requisite da musei e collezioni pubbliche di tutta la Germania. La mostra, dal taglio fortemente “didattico”,  viaggiò per quattro anni in Germania e in Austria e fu visitata da 3 milioni di persone. In questa esposizione  c’era tutto il pensiero hitleriano e il suo rapporto con l’arte. Cubismo, espressionismo e tanti altri movimenti artistici non ispirati a canoni di ordine, regolarità, pulizia formale erano considerati sintomi di un malessere della società che doveva essere “curato”. La mostra sottolineava come tutta l’Europa fosse pervasa da quest’arte “corrotta”, che celebrava il brutto e si allontanava sempre più da quella che avrebbe dovuto essere la vera -secondo il pensiero Hitleriano- funzione dell’arte: la celebrazione della grandezza della Germania e del suo popolo ariano. Solo la Germania poteva invertire questa tendenza e risanare l’arte tornando a quel classicismo celebrativo dei fasti nazionali che Hitler proponeva come modello.

folla all'inaugurazione della mostra "Arte degenerata"

folla all’inaugurazione della mostra “Arte degenerata”

Tutto ciò che esulava da questo canone di bellezza fatto di pulizia formale, eleganza di stampo classico  e di celebrazione della prestanza fisica, era da eliminare. Ecco la parola chiave: “eliminare”.

Come dichiarò Hitler all’apertura della Casa dell’Arte Tedesca nel 1937: “Noi abbiamo dato all’arte nuovi, grandi compiti”. La missione di creare una nuova estetica era alla base dell’ideologia nazista e aveva come obiettivo finale quello di creare un nuovo mondo più bello, puro, sano, pulito. Ed ecco altre due parole chiave “bello” e “pulito” che insieme alla già citata “eliminare” delineano un quadro che si fa via via più agghiacciante.

Prima l’eliminazione delle opere d’arte non conformi poi delle persone “non conformi”, malati, disabili fino agli ebrei. Non a caso i ritratti d’avanguardia, nella mostra “Entartete Kunst”, erano accostati a foto di deformità fisiche in un paragone al di fuori di ogni senso di umanità e di moralità.

paragoni fra opere d'arte degenerata e handicap fisici

paragoni fra opere d’arte degenerata e handicap fisici

paragoni fra opere d'arte degenerata e handicap fisici

paragoni fra opere d’arte degenerata e handicap fisici

"Può questa essere chiamata vita?" Il concetto nazista di eutanasia

“Può questa essere chiamata vita?” Il concetto nazista di eutanasia

Hitler, lui per primo artista e appassionato d’arte (e appassionato in questo caso è un termine riduttivo), conosceva bene il valore dell’arte, soprattutto dell’arte “degenerata” e il suo potenziale eversivo, quindi non fece mai distruggere le opere d’arte non in linea con la sua politica culturale ma le fece semplicemente sparire.

In quest’ottica perversa rientravano anche le camere a gas: strumenti per rendere più bello il mondo attraverso la violenza eliminando i nemici del nazismo e della sua presupposta “purezza”.

Ogni documentario della propaganda nazista era ricco di paragoni con la bellezza e con opere d’arte, come quello della presentazione del gas Zyklon B che sarebbe poi stato usato nelle camere a gas e che veniva indicato come un “potente ed efficace antiparassitario” che in pochissimo tempo avrebbe potuto eliminare quei tarli che distruggono i begli oggetti dei tedeschi (e l’esempio indicato era una scultura lignea).

Parlare di bellezza e di arte si è rivelato in questo contesto storico pericolosissimo e purtroppo efficacissimo.

Se tutti i totalitarismi hanno strumentalizzato l’arte ai fini di propaganda nessun regime come quello nazista ne ha fatto un credo, l’oggetto di una depravata missione di rinnovamento della Germania in nome della purezza e della bellezza.

Architecture of doom”, attraverso una narrazione chiara e ritmata ma non incalzante e innumerevoli fondamentali filmati e foto d’epoca riesce a restituire con un climax ascendente il disegno di Hitler.

Il documentario non prende in esame soltanto le arti figurative ma anche il rapporto del nazismo con la musica e l’architettura, sempre all’interno dell’epos della nuova Germania dominatrice riuscendo nel difficile intento di scattare una fotografia realistica del contesto storico-culturale senza tingerlo di toni emotivi ma mantenendo un’oggettività storica che è preziosa per la comprensione dell’incomprensibile.